
Il film di Pedro Almodòvar, proiettato in una piccola sala, attrae meno di quello di Salemme (nella sala grande). Incrocio sulle scale un uomo sulla sessantina, capelli bianchi e occhialini di metallo, che commenta: "è un film che scuote". E’ cosi. Il film di Almodòvar "La pelle che abito" è un film che scuote. Perché la trama non è lineare, lontana dai classici criteri spazio-temporali, scorre intensamente tra il grottesco e il drammatico, in un susseguirsi di scene di ambiguità e di angoscia. Antonio Banderas recita con una maschera fissa, d'automa, lui stesso già clone di un altro, la parte di un chirurgo che dopo aver perso la moglie, rimasta carbonizzata in un incidente, s’impegna a costruire una pelle in laboratorio più resistente di quella umana. Il primo tempo scorre così, velato, misterioso, sfuggente. E nell’intervallo ognuno cerca di riordinare le idee, di trovare un filo che colleghi le varie scene. E mentre il pensiero "decanta", illudendoti di portarti a una verità, inizia il secondo tempo e i pezzi folli e disordinati si compongono in un disegno che appare, lentamente, sempre meno sfocato. Allora ritrovi quello che ricordavi della “poetica" di Almodòvar: madri con segreti inconfessabili, corpi con identità diverse da quello che appaiono, uomini che sembrano donne, donne che sembrano uomini, ambienti raffinati e ricercati con repentini cambiamenti di stile (l’uomo tigre), legami affettivi al limite della patologia. E poi gli sguardi in primo piano, cosi profondi ma anche inespressivi, lo scivolare della telecamera su particolari apparentemente inutili (i tasti di un sassofono), i continui richiami all’arte figurativa. I titoli di coda scorrono su un fondo con un elica di DNA che gira su stessa, e su gente, ancora al buio, che riflette, che si sente scossa, turbata, scombussolata da una realtà cosi surreale e in fondo cosi umana.